Dall’Evo antico agli inizi del XXI secolo. La sintesi

Introduzione
MARCO CATTINI - MARZIO A. ROMANI

Introduzione


Offerta lancio: Volume in omaggio per chi acquista l'intera collana "Storia Economica e Sociale di Bergamo"

Una grande mole di documenti, monumenti e oggetti, nel testimoniare il tessuto delle opere e dei giorni dei nostri progenitori ne evoca anche le caratteristiche antropologiche e gli stili politici, economici, sociali e culturali che da loro abbiamo ereditato e appreso per imitazione nell’ambiente nativo. Agli storici, per l’appunto, tocca il compito civile d’avvertire la memoria individuale e collettiva di quanti vivono oggi spiegando loro «perché siamo come siamo» in questa parte dell’alta Italia, nel Mezzogiorno d’Europa, dove gli uomini abitano e operano ininterrottamente da molti millenni, avendo tra l’altro smesso d’essere in maggioranza pastori e contadini da non più di tre generazioni. Nel 1940 il giurista, politico e poeta bergamasco Bortolo Belotti pubblicò una Storia di Bergamo e dei Bergamaschi impostata secondo un modello molto tradizionale. Il suo racconto è imperniato sulle vicende delle élite feudali, comunali e signorili dominanti dal Medioevo ai primi decenni del Novecento sulla città e sui territori bagnati dalle acque del Brembo e del Serio. Le accurate pagine di storia politico-istituzionale, che descrivono minutamente il succedersi di individui, di gruppi e di casati al potere, lasciano però in ombra le trasformazioni dell’ambiente naturale, le dinamiche delle popolazioni urbane e rurali, l’evolvere delle istituzioni laiche e religiose, le vicende economiche dei diversi settori: l’agricoltura e l’allevamento, l’artigianato e la manifattura, il commercio e i servizi pubblici e privati. Per non dire delle gerarchie sociali e della vita materiale, entrambe massimamente espressive degli stili d’ogni popolazione. Su quei vasti temi e sull’intreccio nel tempo delle durate e dei mutamenti si sarebbe intrattenuto quasi cinquant’anni dopo un altro Belotti, il senatore Giuseppe, presentando alla Giunta della Camera di Commercio bergamasca la proposta d’avviare una Storia economica e sociale di Bergamo, che l’Ateneo bergamasco aveva già fatta sua. «La mancanza di una storia economica di Bergamo – egli disse – ha inciso, e continua ad incidere negativamente sulla possibilità di una obiettiva e integrale ricostruzione della vita bergamasca lungo il corso dei secoli. Ed in questa direzione […] la Storia del Belotti può sopperire solo in parte, limitandosi ad una cronaca saltuaria, episodica, frammentaria dei fatti economici positivi e negativi, senza risalire alle cause, né approfondirne gli effetti». L’appassionata perorazione del senatore si collegava al lucido quotidiano operare di Costantino Simoncini, a lungo presidente della Camera di Commercio, che della proposta del Belotti fu uno dei più vivaci e convinti sostenitori, assieme a Italo Lucchini e Alberto Lupini, che consci della necessità di aprire nuovi fronti d’indagine storica sulla vita quotidiana delle genti orobiche nel tempo lungo, nella storia vedevano un’alta forma di cultura dai formidabili effetti identitari, socializzanti e aggreganti sui lettori d’ogni età. Di qui l’idea di dar vita a una Fondazione che avrebbe trovato l’immediata ed entusiastica risposta di cinque enti: la Camera di Commercio, l’Italcementi, la Banca Popolare di Bergamo, la Banca Provinciale Lombarda e il Credito Bergamasco che nel luglio 1988 si associarono per assicurare i mezzi finanziari necessari per la redazione di un’ambiziosa Storia economica e sociale di Bergamo.
Bergamo e la Bergamasca dalla Preistoria agli esordi del Comune
GIORGIO CHITTOLINI

Bergamo e la Bergamasca dalla Preistoria agli esordi del Comune




Indagare la storia economico-sociale della Bergamasca significa anzitutto confrontarsi con lo spazio geografico nel quale gli abitanti hanno vissuto e operato. Nel corso di migliaia di anni questo ambiente ha condizionato i cicli vitali delle società umane, e ne è stato a sua volta condizionato. Il territorio che nel tempo viene definendosi come bergamasco è un’unità geografico-fisica bene individuata, ma al contempo estremamente articolata. A settentrione la sua delimitazione è data dal crinale alpino orobico, mentre a ponente e levante sono rispettivamente i corsi dell’Adda e dell’Oglio a definirlo. Più sfuggente, in quanto del tutto antropico – e dunque frutto delle diverse dinamiche politico-territoriali susseguitesi nei secoli –, risulta invece il confine meridionale nella bassa pianura. Esso si sviluppa all’interno di uno spazio nel quale coesistono vari ambienti ecologici: l’alta montagna, il mondo prealpino, i laghi, gli invasi vallivi, la collina, la pianura alta e, infine, quella bassa separata dal resto dalla linea delle risorgive. Questa realtà complessa si riconosce progressivamente in un’identità collettiva unitaria imperniata su di un capoluogo, Bergamo, che dal costituirsi della città romana diviene polo attrattivo e centro di irraggiamento sul territorio. Bergomum, sorta sul sistema di colli proteso verso la pianura come ultima propaggine delle Prealpi fra lo sbocco delle valli Seriana e Brembana, risulta infatti capace di orientare l’organizzazione istituzionale, sociale, economica e culturale dell’intero territorio. Identità collettiva che però non cancella le varie unità socio-culturali venutesi a formare nell’articolazione della Bergamasca, dalle collettività vallive a quelle della città capoluogo, che seppure largamente affini mantengono tratti differenti.
Dal Comune podestarile alla Signoria malatestiana
GIANLUCA BATTIONI

Dal Comune podestarile alla Signoria malatestiana




All’inizio del Duecento, il comune «consolare» ha ormai ceduto il posto al comune «podestarile »; alla sostanziale concordia in seno al ceto dirigente comunale è subentrata una guerra civile endemica alimentata da solidarietà sovracittadine «di parte», cioè «guelfe» o «ghibelline», secondo una terminologia per il vero divenuta usuale a Bergamo solo ai primi del Trecento; nel contempo ha fatto la sua comparsa anche il «Popolo», che si regge sulle organizzazioni di mestiere e sulle vicìnie, il cui colorito politico è guelfo. Il «Popolo», che non è dotato di capacità politica autonoma sebbene nel 1230 i suoi statuti siano incorporati in quelli del comune cittadino, deve allearsi, per lo più, con i Rivola che, con i Bonghi, guidano lo schieramento guelfo, opposto a quello ghibellino capeggiato dai Suardi. L’acquisizione di un ruolo politico da parte della «Società del Popolo» non era stata comunque pacifica ma risultato di aspri scontri scoppiati fin dal 1226. Il suo successo, invece, sarà poi duraturo: il potente Consorzio della Misericordia, fondato nel 1265, ha lo stesso colorito politico; la «Società delle armi di S. Maria Maggiore», che ha la sua sede nel tempio civico dove la Misericordia tiene il suo primo magazzino, ne costituisce il braccio armato. Alle lotte in seno al ceto dirigente comunale si aggiungono le tensioni con la Chiesa. È il caso di ricordare, oltre alle tensioni di matrice politica derivanti dalla tradizionale adesione della città al fronte ghibellino, e oltre alle tensioni religiose indotte dalla lotta, giudicata fiacca, alle eresie, anche le tensioni economico-fiscali provocate dai tentativi compiuti dal Comune per ridurre i privilegi economici e fiscali goduti dagli enti ecclesiastici. Le dedizioni della città, dapprima a Giovanni di Boemia, nel 1331, e dopo la sua disfatta ad Azzone Visconti, nel 1333, si spiegano con una diffusa aspirazione alla pace dopo le tensioni politico-sociali inaspritesi a partire dalla primavera del 1296. Il colorito fortemente ghibellino assunto dalla dominazione viscontea, più che spegnere le tensioni, si limiterà a spostarle dalla città al contado, che i Visconti tenteranno poi di rabbonire cedendo alle aspirazioni autonomistiche avanzate dalle comunità e dalle valli. L’indebolimento del dominio visconteo dopo la morte di Gian Galeazzo nell’estate del 1402, e le pressioni esercitate da Pandolfo Malatesta, gli fruttano la cessione della città nel 1408. Pandolfo vi esercita la sua signoria fino all’estate del 1419, quando il Carmagnola prenderà possesso di Bergamo per conto di Filippo Maria Visconti. Pur schierato con i guelfi, Pandolfo cerca di governare il capoluogo orobico con spirito non grettamente partigiano, ma non riuscirà a sottometterne tutto quanto il contado (1).
Industria, labore et frugalitate. Quattro secoli d’appartenenza economica e sociale alla Serenissima
MARCO CATTINI - MARZIO A. ROMANI

Industria, labore et frugalitate. Quattro secoli d’appartenenza economica e sociale alla Serenissima




Negli anni in cui Bergamo divenne veneziana (1428), l’economia europea cominciava faticosamente a uscire da una prolungata fase di ristagno avviatasi, poco più di un secolo prima, col ricorrere di reiterate e gravi carestie e col drammatico ripresentarsi in Europa della peste dopo molti secoli d’assenza. Nel giro di un quadriennio (1347-1351), dal 20 al 40% della popolazione europea centro-occidentale fu falcidiata dalla «peste nera». La catastrofica pandemìa, che avrebbe fatto irruzione nell’immaginario collettivo europeo rimanendovi per secoli, causò una sensibile concentrazione della ricchezza nelle mani dei sopravvissuti, favorì l’incremento dei proventi di mercanti e artigiani, nonché dei salari dei lavoratori dipendenti che se la passarono molto meglio di prima dello sconquasso demografico, grazie anche al calo della domanda e dei prezzi dei beni primari e, soprattutto, grazie all’arresto del processo secolare di svalutazione della moneta divisionale: quella priva di valore intrinseco che le zecche coniavano con grande vantaggio per i sovrani, rispetto alle monete pregiate fabbricate usando oro e argento. La rarefazione di braccia nelle campagne, dove vivevano i nove decimi della popolazione, condusse all’abbandono delle terre marginali e al tracollo delle rendite signorili in denaro e in natura; tracollo al quale, un po’ dappertutto, si cercò di rimediare rilanciando l’allevamento brado e semibrado ovino, bovino e suino. I fabbricanti di drappi di lana fiamminghi e del Brabante, che smerciavano la maggior parte delle loro produzioni nell’area Baltica, nell’alta Germania, in Francia settentrionale e occidentale, in Spagna e nel Portogallo, tentarono di contrastare il declino della domanda interna ed estera introducendo nei processi produttivi importanti innovazioni che condussero alla confezione di «panni leggeri» di minor pregio – e quindi di più largo smercio e consumo – diversificando la produzione nei settori della canapa, del lino e imponendo la moda degli arazzi da tappezzeria destinati alle dimore degli aristocratici, alle aule dei grandi monasteri e a quelle dei palazzi vescovili. Dal canto loro, i mercanti italiani, attivi soprattutto nel settore tessile, risposero alla sfida migliorando la qualità delle materie prime (lana e seta) e dei tessuti, traendo oltretutto profitto dalle rendite di posizione assicurate da una numerosa clientela di cortigiani e patrizi il cui ricercato abbigliamento era preso a modello dall’aristocrazia europea. Questo spiega il successo incontrato dalle «arti tessili» in città come Lucca, Firenze, Siena, Bologna, Ferrara, Modena, Cremona, Mantova, Brescia, Verona, Vicenza e Padova, dove la coltura del baco e la lavorazione della seta, inizialmente diffusesi nel Mezzogiorno, avrebbero goduto di straordinaria fortuna sino ai primi decenni del Seicento, assicurando all’Italia centro-settentrionale il primato continentale di quel settore.
Dalla fine del Settecento all’Unità: sviluppo manifatturiero ed equilibrio agricolo-commerciale
ALBERTO COVA

Dalla fine del Settecento all’Unità: sviluppo manifatturiero ed equilibrio agricolo-commerciale




Questo scritto non è, né intende essere, soltanto una descrizione della storia economica e sociale di Bergamo e del suo territorio nell’Ottocento tratta dalla letteratura esistente e, in particolare, dal volume edito dalla Fondazione qualche tempo fa; volume che ogni lettore può accostare direttamente con grande profitto. Qui si propone semmai una rilettura degli studi disponibili, sia per evidenziare i caratteri peculiari di un processo di crescita anzitutto economico e determinato da fattori economici, sia per sottolineare quegli elementi culturali e politico-istituzionali (1) che, come i primi e forse più dei primi, in tempi relativamente brevi, e in un territorio certo non ricco di risorse naturali, né favorito da una felice posizione geografica, concorsero a determinare una crescita economico e sociale fra le maggiori della Penisola (2). A questo proposito, credo si debba riandare a quanto, negli anni Quaranta dell’Ottocento, il grande Carlo Cattaneo, scrisse in materia di sviluppo economico. Egli propose concetti di sorprendente modernità e di altrettanto sorprendente attualità per l’Italia. Rivolgendosi agli economisti ricordava come la disciplina da essi professata considerasse tradizionalmente solo tre fonti della «ricchezza delle nazioni»: la natura, il lavoro, il capitale e continuava osservando che la realtà era diversa. Infatti, anche «supposte eguali presso diverse nazioni quelle tre forze produttive, le ricchezze potevano inegualmente crescer o scemare anche solo per certi fatti dell’intelligenza, o per certi fatti della volontà. Sono fenomeni che svolgendosi nell’uomo interiore soggiacciono alle leggi proprie del pensiero» (3). Occorreva dunque guardare al fattore «intelligenza» – oggi diremmo conoscenza – perché quella che Cattaneo chiamava «economia pubblica» – da intendersi, credo, «economia sociale» – non si spiegava «né con la natura, né col lavoro ma coll’intelligenza che afferra i fatti della natura, che presiede al lavoro, al consumo, al cumulo che li fa essere in uno o in un altro modo; che li fa essere o non essere» (4). E l’intelligenza, diceva Cattaneo, era soltanto una delle due nuove fonti della ricchezza. L’altra si chiamava «volontà» della quale parlava come di un ordine d’idee che «mentre sembra condurre li animi lungi affatto dalla cura della ricchezza e di ogni cosa materiale, esercita sopra queste un imperioso dominio» (5). E concludeva «diremo che ogni nuovo trattato d’economia pubblica, dovrebbe formalmente classificare tra le fonti della ricchezza delle nazioni l’intelligenza e la volontà: l’intelligenza che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso: la volontà che determina l’azione e affronta gli ostacoli» (6).
L’età del decollo industriale
STEFANIA LICINI - VERA NEGRI ZAMAGNI

L’età del decollo industriale




Nonostante la grande ingegnosità e intraprendenza dei Bergamaschi, che potevano contare su risorse naturali assai limitate, l’eccessivo peso della popolazione su un’agricoltura povera e arretrata per secoli aveva mantenuto il reddito medio a bassi livelli. L’«Albero degli zoccoli», il celebre film di Ermanno Olmi, rappresenta con pietoso realismo la misera condizione dei contadini senza terra della provincia a fine Ottocento. Solo un decollo industriale avrebbe potuto sottrarre il grosso della popolazione a un destino di malattie da denutrizione come la pellagra e di forti flussi migratori. E il decollo sarebbe avvenuto in concomitanza con quello del resto del «triangolo industriale», ma con tempi più dilatati perché l’industria bergamasca, specializzata nel settore serico già ben prima dell’Unificazione, ebbe difficoltà a realizzare proventi tali da assicurare la crescita generale dell’area. Il processo di industrializzazione della Bergamasca si configura con uno stretto legame fra agricoltura e manifattura serica in primo luogo e con l’industria cotoniera in seguito. Ciò è il frutto di due condizioni. Da un lato, la diffusione di un sistema mezzadrile, che rese impraticabile ogni pressione sul padronato per un miglioramento dei contratti dell’abbondante mano d’opera femminile disponibile per lavori stagionali che fruttavano qualche integrazione dei magri introiti delle famiglie contadine e qualche sollievo alla disoccupazione occulta. Dall’altro, una consistente accumulazione di rendite fondiarie che inducevano i percettori ad impiantare soprattutto filande di seta, traendo pingui guadagni dall’equilibrio agro-commerciale che connotò l’economia lombarda almeno fino al primo decennio postunitario. Proprio nel setificio la provincia orobica contò il suo più grosso contingente industriale fino alla prima guerra mondiale. Si trattava di un gruppo numeroso di imprenditori, una buona metà dei quali provenienti dalla Svizzera, che introdusse la trattura a vapore, seppe contrastare vittoriosamente la pebrina del baco da seta, fu presente in banche e istituzioni economiche; ma soprattutto accumulò grandi patrimoni immobiliari, senza però mostrare una forte propensione a diversificare ulteriormente l’economia locale. Se su quel tessuto economico non si fossero poi inseriti altri elementi, l’area avrebbe subito un’emorragia di manodopera maschile maggiore di quella sperimentata e sarebbe andata incontro a un’involuzione pesante, con la scomparsa del setificio negli anni successivi la prima guerra mondiale. Per la fortuna di Bergamo, ciò non accadde, seguendo però itinerari tutt’altro che ovvi.
Una vocazione manifatturiera: l’economia dalla ricostruzione ad oggi
VERA NEGRI ZAMAGNI

Una vocazione manifatturiera: l’economia dalla ricostruzione ad oggi




Come si è visto nei precedenti capitoli, la lunga storia di Bergamo e della sua gente ne mostra tutta la capacità di adattarsi e trasformarsi secondo il mutare dei tempi e delle tecnologie produttive. La plurisecolare presenza della manifattura, compresa quella delle attività industriali in molti settori già potenziatesi nel corso dell’Ottocento, trasse forse origine da un’agricoltura povera che, esercitata in un territorio prevalentemente collinare e montuoso, non poté stabilmente accrescere la ricchezza annualmente prodotta, impedì una larga commercializzazione dei prodotti e limitò la formazione di risparmio destinabile a investimenti migliorativi. Come in molte aree del Nord-Est-Centro (NEC) del Paese, la definitiva uscita di Bergamo dal novero delle province a basso reddito, con sacche di vera e propria indigenza, si è realizzata solo tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento attraverso un percorso peculiare, che qui intendiamo tratteggiare in sintesi, rinviando per i dettagli al volume VI della Storia Economica e sociale di Bergamo (1). In questo capitolo si mostrerà la capacità di tenuta dell’economia bergamasca negli anni successivi al grande «balzo in avanti» post miracolo economico, conducendo il filo della storia fino al primo decennio del XXI secolo. Emergerà chiaramente che la fioritura industriale di Bergamo è stata così solida da resistere a tutti i venti contrari di natura politica, economica e finanziaria, configurando la Bergamasca nel secondo decennio del XXI secolo come una delle aree più manifatturiere d’Italia, con buona capacità di reazione anche alla lunga crisi 2008-2013. Benché manchi a Bergamo un forte radicamento del terziario avanzato, dove si realizzano i redditi più elevati, l’area si classifica ai primissimi posti in Italia per reddito pro capite. Tra la metà degli anni 1990 e il 2010, si è infatti stabilmente collocata tra l’8° e il 9° posto sulle 107 province italiane, precedendo Brescia di parecchie lunghezze. La vivacità dell’economia bergamasca nella seconda metà del XX secolo è anche testimoniata dalla robusta crescita demografica della provincia, passata dai 696.626 residenti del 1951 a più di un milione (1.098.740) nel 2011. Il tasso di disoccupazione si è costantemente mantenuto su livelli particolarmente bassi, tanto che nel 2011 non superava ancora il 4%. Si tratta di una popolazione variamente distribuita su un territorio, che conta ben 244 comuni (terza provincia italiana per numero di comuni, dopo Torino, che ha però una popolazione totale doppia, e dopo Cuneo, che ha un’area geografica quasi tripla), mentre nel 2011 il capoluogo contava solo 121.316 residenti (l’11% del totale provinciale), dei quali 19.624 stranieri (16,1%). Le aziende sono disperse in tutto il territorio provinciale e vi sono numerose grandi imprese con sede lontano dalla città. La prima sezione del capitolo dà conto dei cambiamenti istituzionali intervenuti tra dopoguerra e oggi; la seconda, la terza e la quarta affrontano i temi centrali della storia economica bergamasca relativi all’evoluzione dell’industria e dell’imprenditorialità; la quinta sezione tratta del settore costruzioni; la sesta di quello bancario, mentre nell’ultima si propongono dati utili a illustrare le varie sfaccettature della società civile del territorio.

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